di Simone Santini
Ringrazio tutti, in particolare il presidente, che mi ha affidato l’onere ma soprattutto l’onore di questa relazione. La difficoltà maggiore che ho incontrato è stata condensare temi molto ampi, come quelli della crisi di governo, l’elezione del Presidente della Repubblica, e un focus sul M5S. Spero di esserci riuscito ma mi perdonerete se dovessi essere un po’ lungo. La materia trattata è ovviamente in piena evoluzione quindi ciò che dirò potrebbe essere smentito totalmente domani mattina. Facendomi anche fare una figura pessima. E quindi questa eventualità la partecipo con piacere con Pino Cabras che mi ha assistito e che condivide l’analisi che vado ad esporre.
L’Italia è uscita dalle urne divisa in tre componenti dotate di forza elettorale omogenea ma politicamente totalmente disomogenee. Ciò sta determinando una situazione di pieno stallo. Si possono ritenere ormai naufragate le due opzioni ipotizzate nei giorni scorsi. La prima riguardo un Governo a guida PD con premier Bersani e con l’appoggio del M5S, la seconda con la stessa base parlamentare, cioè con il sostegno del centrosinistra e del M5S, ma con un Governo formato da personalità di alto profilo indipendenti dai partiti. Allo stato rimangono plausibili solo altre due ipotesi residue: o un governissimo o elezioni anticipate.
Di governissimo si può parlare sotto due profili: un Governo politico a guida PD con appoggio del centrodestra e del centro; oppure un Governo di natura istituzionale, di scopo, che attui alcune riforme (in particolare la legge elettorale) per poi andare ad elezioni in tempi relativamente brevi (6 mesi, un anno, massimo due anni).
Questa ipotesi appare caldeggiata dal Capo dello Stato, dal centrodestra, almeno secondo le dichiarazioni pubbliche, e allo stato attuale solo da alcune componenti minoritarie del centrosinistra: si vedano ad esempio le dichiarazioni in tal senso di Dario Franceschini e, anche se con una prospettiva diversa, di Matteo Renzi. Quali sono le ragioni che depongono a svantaggio o a vantaggio di questa eventualità?
A svantaggio due fattori fondamentali: Bersani ha più volte ribadito che alle condizioni attuali un accordo con il centrodestra non farebbe, parole sue, “il bene dell’Italia”. La possibilità di un Bersani premier pare ormai lontana ma anche un possibile incarico ad un’altra figura del centrosinistra, più disponibile ad un accordo col centrodestra, vedrebbe pur sempre Bersani segretario del PD e quindi responsabile della strategia di fondo del partito. Sarebbe dunque necessario un ribaltamento dei rapporti di forza all’interno del PD e un esautoramento sostanziale del segretario, oppure che il segretario stesso ribalti in maniera repentina la sua impostazione. Entrambe queste possibilità, nei tempi molto brevi che sono quelli richiesti dalla soluzione della crisi, sembrano di difficile attuazione per la mancanza di condizioni politiche.
L’altro fattore di svantaggio è quello delle riforme attuabili. Nemmeno l’accordo sui contenuti pare facilmente realizzabile. Prendiamo la legge elettorale: il problema della governabilità, se si guarda bene, non è tanto determinato in senso negativo dall’attuale porcellum ma dal fatto che la Costituzione prevede che alla Camera il sistema elettorale debba essere declinato su base nazionale, mentre al Senato va declinato su base regionale. Quindi per superare l’impasse la riforma richiesta non è tanto di natura elettorale in sé ma allo stesso tempo di riforma elettorale e costituzionale. Questo ovviamente complica le cose perché allungherebbe molto i tempi necessari per l’approvazione e i tempi lunghi non sono compatibili con una maggioranza instabile quale sarebbe quella di un governissimo.
Si aggiunga un altro elemento. Casini ha dichiarato apertamente al Corriere della Sera che il progetto del centro quale terzo polo è fallito. La prossima volta il centro dovrà schierarsi da una parte o dall’altra. Ora appare chiaro che nel breve/medio periodo il centro potrà allearsi più facilmente col centrosinistra piuttosto che col centrodestra. All’attuale centrodestra, pertanto, rimane solo la possibilità di poter pareggiare le future elezioni, come accaduto nelle ultime, difficilmente di vincerle. Quindi il centrodestra non ricaverebbe alcun vantaggio dall’appoggiare una riforma elettorale che garantisse una chiara e netta maggioranza, ovvero o l’attuale sistema con forte premio di maggioranza su base nazionale anche al Senato, o un sistema a doppio turno lo stesso su base nazionale.
Sul piano delle possibili riforme economico-sociali il centrodestra ha ribadito gli otto punti che altro non sono che la riedizione della piattaforma della recente campagna elettorale. Otto punti che non toccano in alcun modo l’impianto del modello socio-economico italiano e ne investono solo alcuni caratteri esteriori, con un forte appello alla pancia dell’elettorato (la restituzione dell’IMU, la riforma di Equitalia) ma che si pongono, in quanto tali, di quasi impossibile mediazione con le proposte del PD.
In questo scenario si colloca l’elezione del Presidente della Repubblica che potrebbe determinare un cambiamento di fase e da cui dipenderà, in ogni caso, la decisione circa lo scioglimento o meno delle Camere o la volontà di cercare la formazione di un Governo.
Si parte da un dato di fatto, numerico. Il centrosinistra può contare, conteggiando anche i voti dei rappresentanti regionali, cosiddetti “grandi elettori”, su quasi 500 voti, poco meno. Dalla quarta votazione in poi, quando è sufficiente la maggioranza assoluta, il quorum è di 504 voti. Significa che se il centrosinistra presenta unitariamente un proprio candidato (e in questi giorni, in tal senso, si è fatto insistentemente il nome di Romano Prodi), potrebbe recuperare il pugno di voti che gli manca dal centro o dal M5S ed eleggere il proprio candidato.
Però, in questo scenario ci sono molti però. Innanzitutto è necessario che il centrosinistra si presenti compatto, e questo è per nulla scontato. Accanto alla candidatura di Prodi sono già emerse voci, dall’interno del centrosinistra, che sconsigliano tale nome perché sarebbe considerato di rottura verso il PdL. Ci sono settori che sembrerebbero caldeggiare il nome di Massimo D’Alema, ad esempio. Non trascuriamo la componente “renziana” che può contare su una cinquantina di voti, che potrebbero essere decisivi e non avallare né Prodi né D’Alema, anche se l’incontro di oggi [tra Matteo Renzi e Massimo D’Alema] potrebbe anche essere letto anche in tal senso.
Si può aprire dunque la via per un’altra prospettiva, ovvero una convergenza verso un nome che possa raccogliere fin da subito anche il voto dei centristi e che non sia sgradito al centrodestra. Potrebbe essere sempre un candidato di area PD, come Franco Marini o come Pietro Grasso, oggi è uscito il nome di Violante; oppure un rappresentante di quell’area contigua, che io chiamo “area Bilderberg”, e quindi Emma Bonino piuttosto che Giuliano Amato. Allo stato attuale l’ipotesi che si intravede come più probabile è l’elezione di un presidente che nasca dall’accordo tra PD e centro e che magari non risulti sgradito al PdL.
In questo scenario il M5S potrebbe avere una sua possibilità di influenza? La strada è molto stretta, e necessita l’avverarsi di due condizioni: che il centrosinistra tenti la via di eleggere autonomamente un proprio candidato e si trovi incastrato nei veti incrociati dei prodiani, d’alemiani, renziani e quant’altro; secondo: se si verificasse questa eventualità gli stellini dovrebbero avere la capacità di giocarsela tatticamente in maniera scaltra. Se il M5S riuscisse a cogliere il momento giusto per proporre un candidato che riscuotesse l’approvazione di una buona parte del centrosinistra (potrebbe essere un Rodotà, per capirci), si potrebbe innescare il giochino per cui la componente più forte che avesse visto bocciato il suo candidato, mettiamo i prodiani, potrebbe a mo’ di una sorta di ritorsione dire: ah sì, ci avete impallinato Prodi… ora votiamo Rodotà. I voti stellini (sono 163) più i voti di una forte componente del centrosinistra, anche non totalitaria, potrebbero far passare una soluzione del genere.
Questo è il quadro generale. Che previsioni si possono fare sull’esito di questa crisi politica, quale la via d’uscita? C’è uno scenario che potrebbe essere di sintesi e composizione tra le varie componenti, ed è rappresentato da elezioni anticipate a brevissimo termine ma con la formazione di una coalizione diversa rispetto quelle dell’ultima consultazione. Cioè uno scenario fondato sull’alleanza tra PD e Scelta Civica con Matteo Renzi candidato premier. Questa coalizione, se si osservano i flussi elettorali del 24-25 febbraio, potrebbe avere buone possibilità di vittoria anche al Senato, anche con questa legge elettorale.
Nel PD ciò significherebbe un accordo politico tra le nuove leve e i “rottamandi” del partito, che si dividerebbero responsabilità di Governo da una parte e responsabilità di partito dall’altra, anche in vista del Congresso che si deve tenere quest’anno, probabilmente in autunno.
Il centro viene da un risultato elettorale mediocre che lo determina in questa fase come sostanzialmente irrilevante. In tale sviluppo avrebbe subito una nuova concreta chance di partecipare ad una coalizione di Governo.
Il PdL: il PdL ha soprattutto una necessità, avere al Quirinale una personalità che non sia ostile a Silvio Berlusconi e che possa sufficientemente garantirlo dal punto di vista giudiziario. Teniamo conto che tra le prerogative del Presidente della Repubblica c’è anche quella di concedere la grazia e commutare le pene. Quindi una volta ottenuto questo il centrodestra non avrebbe particolari motivi per evitare le elezioni anticipate, immaginando anche di poter pareggiare nuovamente al Senato e quindi a quel punto imporre un governissimo che una coalizione centrosinistra-centro a guida Renzi potrebbe accettare molto più facilmente di un centrosinistra a guida Bersani.
Insomma, quella delle elezioni anticipate appare l’unica soluzione in cui le componenti fondamentali hanno meno da perdere e con la prospettiva di poter ottenere dei vantaggi. Che poi questi vantaggi siano illusori o meno dipenderà dall’esito delle elezioni.
La parte che maggiormente potrebbe fare le spese per questi possibili sviluppi è il M5S. Non è un caso che gli esponenti parlamentari stellini e lo stesso Grillo stiano paventando il ritorno alle urne, gli unici a farlo con tale nettezza. È probabile infatti che il MoVimento vada incontro ad una evidente flessione di voti. Un sondaggio, per quanto possono valere i sondaggi, indica che un elettore su cinque non sarebbe disponibile a votare di nuovo il M5S, quindi con una perdita del 5% rispetto al 25% di febbraio. A fronte di un risultato del genere, mentre il nocciolo duro dei militanti immagina invece un ulteriore sfondamento, si potrebbe determinare un forte contraccolpo psicologico con l’aprirsi delle prime crepe, le prime vere rese dei conti nel MoVimento.
In questo caso, però, verrebbe da dire che chi è causa del suo male pianga se stesso. Il M5S ha dato prova di scarsissima capacità tattica politica, come del resto era preventivabile. Le cose sarebbero state molto diverse se avesse tenuto un differente atteggiamento post-elettorale con quella linea politica suggerita tra i primi proprio da Alternativa e poi allo stesso modo auspicata da editorialisti come Marco Travaglio, Paolo Flores D’Arcais, Andrea Scanzi. Ovvero indicare pubblicamente e platealmente una sua squadra di Governo, con nomi e cognomi, di alte personalità di garanzia morale ed esperienza, indipendenti dai partiti e dallo stesso MoVimento, su cui lanciare la sfida della fiducia ai partiti stessi ed in particolare al PD.
Questo avrebbe, in un colpo solo, inchiodato Napolitano togliendogli spazio di manovra e probabilmente impedendogli la soluzione “guadagna-tempo” con l’indicazione dei cosiddetti “saggi”; avrebbe spaccato il PD andando a svelare il bluff sulla governabilità che ancora oggi Bersani sbandiera; con una mossa propositiva avrebbe dato alla Nazione l’immagine di una forza politica credibile e concreta, ma dal carattere rivoluzionario. Tale azione, affiancata ai buoni interventi parlamentari che i portavoce stellini stanno svolgendo, e soprattutto all’attuale ottima battaglia per lo sblocco delle commissioni parlamentari, avrebbe potuto prolungare l’onda lunga dell’entusiasmo elettorale. Invece, perpetrando quell’atteggiamento a saracinesca, il MoVimento ha già parzialmente dilapidato il suo patrimonio e viene ora percepito, a livello comune, come una forza che sa dire solo NO perché priva di elaborazione politica e soprattutto priva di affidabilità. Il che, forse, è vero, se si deve ritenere che gli eventi non succedono per caso.
Dove si possono rinvenire le radici di questa incapacità del M5S?
L’analisi può partire dallo sfatare alcuni luoghi comuni. Il MoVimento non è, come viene ripetuto da più parti, un movimento fondamentalmente di protesta. Certo, questa componente, soprattutto a livello elettorale, esiste, questa percezione deriva anche da una capacità di comunicazione portentosa che è quella propria di Beppe Grillo, ma Grillo non è solo un grande comunicatore istrionico e ficcante, è anche e soprattutto un “ideologo” benché sui generis.
Grillo ha costruito lungo un paio di decenni l’idea di una nuova civiltà basata su un radicale mutamento del modello di produzione e di sviluppo. E lo ha fatto soprattutto incontrando le persone, prima e dopo la strutturazione in rete. Sfatiamo un altro mito secondo cui il successo del M5S nasce per l’utilizzo della rete. Non è così. Grillo per anni ha riempito i Palasport; durante lo Tsunami Tour ha riempito le piazze italiane, nella provincia più profonda italiana, come nessun politico in epoca recente o meno recente sia mai riuscito a fare. Grillo ha conquistato la Sicilia non a colpi di clic ma nuotando per tre chilometri.
Certo, poi la rete ha dato un supporto importante, ma tale supporto non è superiore al fatto che i militanti partecipano alle battaglie sui territori, anzi, sono parti attive e talvolta vitali dei comitati, sono i più presenti e i più battaglieri nei Comuni e nelle Amministrazioni locali. Una delle distorsioni sul M5S è lo scambiare come “settarie”, in senso dispregiativo, alcune modalità tipiche degli stellini che rispondono invece ad un senso più pieno di identità. Grillo, grazie anche al suo naturale carisma, è riuscito a creare un senso di comunità e appartenenza molto forte. Tale senso di comunità, di calore, di umanità è un’arma formidabile nel trasmettere il pathos della partecipazione, l’onda emotiva, lo tsunami, appunto, soprattutto durante le campagne elettorali.
Allora dove nasce la discrasia, in che momento questo movimento si mette su un percorso involutivo? Il problema nasce con l’incontro Grillo-Casaleggio laddove Casaleggio è il portatore di un modello che semplificando potremmo definire “americano”. Qui non si parla delle teorie del complotto per cui Casaleggio, o chi per lui, sia un infiltrato di un qualche servizio segreto, loggia massonica, o entità più o meno oscura. Non che mi senta di escluderlo, personalmente, ma non è questo il punto. Il fatto è che Casaleggio è il portatore di una filosofia di puro marketing applicato alla politica. Ovvero ha, in maniera molto riduzionista, impoverito il bagaglio ideologico del Grillo pensiero in una struttura organizzativa efficace, molto efficace fino ad un certo punto, ma sclerotica, se non pericolosa, nei contenuti.
Facciamo i due esempi più lampanti.
Il V-Day è stato il primo vero salto del MoVimento nell’agone politico. Sul piano comunicativo è stato esemplare, ma il pensiero complessivo antisistema è stato ridotto e appiattito su una proposta anticasta. Si è passati da un livello complessivo (l’antisistema) ad un livello particolare (l’anticasta) con la elaborazione di tre proposte (voto di preferenza, due legislature e poi a casa, no ai condannati in Parlamento) che, oltre che essere tutte molto discutibili sul merito, avevano sì un forte impatto comunicativo e una facile presa popolare, ma di fatto erano proposte che andavano a scalfire in maniera del tutto superficiale il Sistema di Potere, quello che è stato chiamato, con una sintesi suggestiva, lo “Stato Profondo”.
Altro esempio, i meet up. Questi sono le cellule vive del MoVimento ma lungi dall’essere le vecchie sezioni di partito, che erano anche luogo di elaborazione politica raffinata, sono diventate le succursali di un franchising in cui si paga per avere la possibilità di utilizzare un marchio. In questo modo si sono create tante isole non comunicanti tra loro, ognuna aggrappata alla sua visione ristretta e particolare, con una impossibilità di creare, di nuovo, una sintesi politica complessiva, una visione d’insieme. Ancora una volta la complessità e l’organicità della visione di una nuova civiltà è scomposta, mercantilisticamente, in mille rivoli.
Su tutto questo aleggia poi, o per meglio dire, incombe, lo spettro del nuovo Dio, la tecnologia, il web. L’idea che il web risolva tutti i problemi, che sia davvero uno strumento democratico, che, anzi, sia, si identifichi con la democrazia stessa. Cioè uno strumento che diventa Ideologia, tra l’altro una ideologia potentissima. È una visione molto molto molto allarmante.
Come se ne esce? Basterebbe pensare: facciamo divorziare Grillo da Casaleggio. Non è così facile.
Il MoVimento ha davanti a sé alcune sfide fondamentali, di ordine sia, per così dire, identitario, che di contenuto politico, che sono poi intimamente legate. Il suo futuro dipende dalla risposta a queste sfide.
Prima di tutto sarà necessario che faccia un salto di qualità sul piano della credibilità. Pur mantenendo il suo carattere rivoluzionario, dovrà essere credibile e, in qualche modo, rassicurante. Un nuovo sfondamento, la conquista di nuovi cuori non potrà prescindere da questo: alcune fasce sociali e generazionali (penso in particolare ai pensionati) dovranno sentire di potersi affidare al M5S. La resistenza più forte che il MoVimento avrà, da questo momento in poi, si baserà sulla paura.
Sul piano dei contenuti programmatici, il banco di prova è il lavoro. Qui si decide gran parte, forse tutto. Se una forza politica rivoluzionaria riuscisse a sintetizzare la divisione, addirittura contrapposizione, oggi esistente tra lavoro pubblico, lavoro salariato, lavoro autonomo, e a fonderla in una visione di popolo, organicamente inteso, prenderebbe in mano il governo di questa Nazione.
Quale il contributo possibile di Alternativa? Ovviamente tanti, ma dal punto di vista più semplice la risposta è a mio avviso solo una: esserci. Consapevoli dei problemi, innumerevoli, delle difficoltà, innumerevoli, ma esserci e ancora esserci, in maniera intelligente, multiforme, pronti a cogliere tutti i varchi che si potranno aprire nel M5S, ben consapevoli che il loro è un percorso in continua evoluzione. Quello che vale oggi potrebbe non valere più tra un mese, essere ancora diverso tra un anno, essere l’opposto tra due. Noi dobbiamo comunque esserci. In che modo, con quali forme, questo potrebbe essere, è una mia proposta, il tema a cui dedicare una prossima futura elaborazione condivisa del Consiglio Nazionale. Ho concluso, Vi ringrazio.
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